Il Chinmoku
- ISN LAB
- 5 giorni fa
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Aggiornamento: 2 giorni fa

In tutte le culture, comunichiamo molto più di quanto diciamo. Gesti, posture, sguardi e persino il silenzio sono parte del linguaggio attraverso cui costruiamo relazioni. In Giappone, il silenzio 沈黙 non è un vuoto tra le frasi, ma un modo autentico di comunicare. Come scrive la linguista Deborah Tannen, “il silenzio può consistere nel non dire nulla, eppure significare qualcosa”.
Il silenzio è più frequente e più lungo nelle conversazioni giapponesi che in quelle occidentali. Quest’abitudine ha radici profonde: da un lato nella storia culturale e religiosa del paese, dall’altro nella forte coscienza collettiva che caratterizza la società giapponese.
Tradizionalmente, il silenzio è stato considerato una virtù, segno di sincerità e controllo di sé. Espressioni come haragei 腹芸, letteralmente “arte del ventre”, o ishin denshin 以心伝心, “comunicazione da cuore a cuore”, riflettono l’idea che la verità e l’autenticità risiedano più nell’interiorità che nelle parole. Questa concezione è stata rafforzata dallo Zen, che pone al centro la pratica silenziosa e la conoscenza intuitiva. Nelle arti tradizionali giapponesi, dal kadō 花道,l’arte floreale, al shodō 書道, la calligrafia, dal teatro Nō alla musica, il silenzio non è assenza, ma spazio attivo: il ma 間, l’intervallo che dà ritmo e significato a ciò che accade.
Il silenzio ha anche una funzione sociale: in una cultura in cui prevale la logica del gruppo, parlare troppo presto o contraddire apertamente può essere percepito come mancanza di rispetto o desiderio di mettersi in mostra. L’adagio “il chiodo che sporge viene martellato” 出る杭は打たれる riassume bene questa tensione: il silenzio diventa una forma di armonia, uno strumento per mantenere equilibrio e consenso. Nella comunicazione quotidiana, questo atteggiamento si manifesta in quello che viene chiamato enryo- sasshi 遠慮・察し : moderazione e intuizione. Prima di parlare si valuta se le proprie parole possano turbare l’altro o alterare l’atmosfera; solo ciò che appare “sicuro” e non invasivo viene espresso. È un sistema di filtraggio esplicito che privilegia la sensibilità rispetto alla chiarezza.
Naturalmente il silenzio non è sempre armonia. In certi casi può diventare distanza, rifiuto o anche forma di difesa; si può tacere per rispetto, ma anche per convenienza. In ogni caso, non equivale a mancanza di contenuto, ma è un linguaggio invisibile che completa le parole.
In contesti interculturali questo può portare a fraintendimenti: per chi viene da culture più verbali, tacere può sembrare disinteresse e per i giapponesi parlare troppo può significare invadenza. Ma è proprio in questo spazio di differenze che troviamo la chiave per comprendere come culture diverse danno forma alle relazioni. Il silenzio, come le parole, può dire molto: basta saperlo ascoltare.
Nel mondo del business globale, saper ascoltare anche il silenzio può fare la differenza tra un’intesa fragile e un accordo autentico.
Il Chinmoku giapponese ci ricorda che non tutto ciò che conta si dice a parole: anche in una sala riunioni, tra pause e sguardi, si negoziano fiducia, rispetto e leadership.
Imparare a riconoscere e utilizzare questi spazi di silenzio significa allenare una competenza chiave per ogni decision maker: la presenza consapevole.
Il Convegno “Negoziare con i Mercati Asiatici” del 25 novembre 2025 sarà un’occasione unica per esplorare come la comunicazione invisibile (il tono, il gesto, il silenzio) possa trasformarsi in una leva strategica di influenza e di accordo.
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(Testo a cura di Roberta Nardi, con la supervisione di Flavia Milesi)


